Negli anni novanta del secolo scorso e sino al primo lustro di quello in corso il calcio italiano dominava lo scenario internazionale in virtù soprattutto delle “sette sorelle”, ovvero i club più ricchi e potenti della Serie A che ogni estate partivano con i favori del pronostico per vincere il campionato e le varie competizioni europee (anche se poi il tricolore era quasi sempre appannaggio di una tra Juventus e Milan).
Queste sette sorelle erano tutte appartenenti a grandi gruppi o a imprenditori italiani:
- Fiorentina: gruppo Cecchi Gori (media), poi dal 2002 dopo il fallimento e la ripartenza dalla C2 il gruppo Della Valle (moda);
- Inter: Massimo Moratti (petroli);
- Lazio: Sergio Cragnotti (finanza e alimentari);
- Juventus: galassia Agnelli (auto e svariati settori industriali);
- Milan: Fininvest della dinastia Berlusconi (media e altro);
- Parma: Callisto Tanzi (alimentari);
- Roma: Franco Sensi (petroli).
A distanza di nemmeno un quarto di secolo questa situazione appare preistoria. Di queste sette sorelle non se ne parla più da tempo e delle famiglie imprenditoriali che le possedevano soltanto la dinastia Agnelli-Elkann prosegue il suo impegno con la Juventus. A onore del vero anche i Berlusconi sono ancora nel calcio ma non più con il Milan stellare di papà Silvio, ma tramite il Monza, un investimento che ha avuto il merito di portare agli onori della Serie A una delle province più laboriose d’Italia, ma che certo non si può paragonare per levatura e dimensione a quello concretizzato nel club rossonero dal 1986 al 2017.
Soprattutto però, ed è quello che colpisce di più, è che a parte gli Agnelli-Elkann e i Berlusconi, tutte le altre dinastie imprenditoriali di quella stagione d’oro del calcio italiano sono scomparse o stanno diminuendo il loro peso nel loro business storico, magari per reinvestarsi con altre vesti.
Se infatti le fortune dei Tanzi, dei Cragnotti, dei Sensi e dei Cecchi Gori svanirono per svariate vicissitudini nei primi anni del nuovo secolo, è notizia di questa settimana che anche i Moratti e i Della Valle, che in qualche modo parteciparono a quell’era d’oro (per quanto nella sua fase discendente di inizio secolo) stanno tirando i remi in barca dalla loro avventura imprenditoriale.
In particolare i Moratti hanno deciso di cedere la loro quota di maggioranza di Saras al gruppo svizzero-olandese Vitol: il 35% in particolare, a meno di interventi del governo attraverso la golden power, passerà subito di mano, mentre resta in ballo un ulteriore 5% che dovrebbe poi essere ceduto in un secondo momento. Per altro, come ha svelato Calcio e Finanza in settimana, la famiglia milanese ha intascato oltre 3 miliardi di euro dalla gestione della Saras dal momento della quotazione in Borsa ad oggi tra l’ipo del 2006, cessioni di quote e incassi dei dividendi nel corso degli anni.
Per quanto concerne i Della Valle invece, la scelta è stata quella di ritentare l’opa per il delisting del titolo di Tod’s dalla Borsa: un secondo tentativo dopo quello fallito nel 2022, ma questa volta insieme ai fratelli Andrea e Diego ci sarà il fondo L Catterton, nato nel 2016 da una partnership tra la società di private equity Catterton e la Lvmh della famiglia Arnault. Il risultato sarà una ulteriore diluizione delle quote di maggioranza da parte dei Della Valle, che in caso di successo scenderanno al 54% del capitale sociale di Tod’s rispetto al 64% attuale, mentre L Catterton diventerà titolare indirettamente del 36% e a Delphine (Lvmh) andrà il 10%.
LA TENDENZA IMPRENDITORIALE ANTICIPATA DAL CALCIO
In questa sede però non si vuole tornare sui motivi del declino del calcio italiano degli ultimi né spiegare il tramonto del modello del mecenatismo, superato al vertice dell’élite del pallone mondiale dall’offensiva del modello inglese e in misura inferiore di quello spagnolo. Numerosi articoli, simposi universitari, convegni e think-tank di sport&business hanno svelato perché il modello legato alla munificenza di un patron non regge di fronte a società, come quelle inglesi, gestite come vere e proprie aziende multinazionali e che per primi hanno intuito, sin dagli anni novanta, il potenziale dei mercati asiatici e nordamericani.
Invece si vuole evidenziare come per una volta il settore calcio sia stato una dei principali anticipatori di tendenze che giacevano nel tessuto economico del Paese.
Non a caso, come ha spiegato Il Sole 24Ore in settimana, con quello di Tod’s sono ormai oltre 300 i delisting avvenuti a Piazza Affari negli ultimi 20 anni. Un segno evidente di come tra le grandi famiglie imprenditoriali italiane, numerose delle quali emerse nel boom economico del secondo dopoguerra, non sono molte quelle che hanno costruito un gruppo in grado di essere protagonista anche nell’economia globalizzata di oggigiorno.
Tra questi vi sono sicuramente gli Agnelli-Elkann con la holding Exor e le sue partecipate (tra queste Stellantis, Ferrari e la Juventus), oltre che i Berlusconi con in particolare con MFE (MediaForEurope, la holding che controlla l’italiana Mediaset, la spagnola Mediaset España ed è azionista di maggioranza della tedesca ProSiebenSat), e i Ferrero della Nutella, il cui amministratore delegato Giovanni è sempre al vertice delle persone più ricche nel Paese. Ma si potrebbero citare anche i Lavazza, che controllano ancora al 100% il loro impero del caffè, oppure gli stessi Benetton.
Invece dall’altro lato sono numerosi quelli che hanno preferito passare la mano o per non essere stritolati dal meccanismo “cresci o muori” imposto, soprattutto negli ultimi anni, dall’economia globalizzata o per semplice mancanza di eredi vogliosi di proseguire l’attività di famiglia oppure perché hanno trovato più conveniente vendere ai colossi stranieri.
In un tale quadro, e tornando al calcio, questo significa che l’idea di qualche tifoso nostalgico che in qualche modo ci si possa smarcare da un calcio finanziarizzato fatto di fondi di investimento e businessman stranieri per tornare alla grandi famiglie imprenditoriali italiane è quantomeno utopico.
In primo luogo per il semplice motivo che di grandi dinastie imprenditoriali in Italia ce ne sono sempre meno e spesso non hanno, né mai avuto la voglia di investire nel calcio, come ad esempio i Ferrero o i Benetton. Per esempio chi seguiva la Serie A già negli anni ottanta non scorderà come in più di un’occasione figure di spicco del mondo piemontese, incluso il vecchio direttore di Tuttosport Piero Dardanello, abbiano cercato di convincere i Ferrero ad acquistare il Torino, ma il vecchio patron Michele non si lasciò mai lusingare.
In seconda istanza, perché sono veramente poche quelle famiglie che possono pensare di investire nel calcio talmente tanto da essere competitivi con i club gestiti dagli sceicchi (PSG e Manchester City su tutte), con quelli con brand globale come il Real Madrid oppure il campione nazione nel settore calcio dell’economia più potente d’Europa come il Bayern. Oppure con tutti i club di Premier League visto che l’ultima della massima serie inglese prende in diritti tv più di quella che incassa di più in Serie A.
E d’altronde nel 2021 è stato lo stesso Silvio Berlusconi, uno degli uomini che più ha investito nel calcio in Italia, a spiegare come una dinastia imprenditoriale italiana non posso più reggere il peso economico di un club che punta a dominare lo scenario planetario. «Come si è evoluto il calcio negli ultimi 35 anni? Allora era possibile per una famiglia farsi carico di una squadra di calcio, che si identificava anche con una città. Oggi il grande calcio è un affare che riguarda la finanza internazionale, i grandi protagonisti sono petrolieri arabi, magnati russi, fondi d’investimento americani. Tutto legittimo, ma lontano dal territorio, dall’appartenenza, dalla passione sportiva. D’altra parte è un processo inevitabile, viste le cifre in gioco».
Sia beninteso la dinastia milanese, per patrimonio, può tranquillamente sopportare il peso di un Monza o anche, ipoteticamente, del Milan attuale, un club che sta molto attento alle proprie spese ed esigenze economiche, ma difficilmente sarebbe in grado di sovvenzionare una società che punta al predominio mondiale acquistando a suon di denari i migliori giocatori sul mercato come ai tempi d’oro dell’era Silvio Berlusconi.
IL PESO DELLA SERIE A E LA SPINTA DELLE BIG PER LE 18 SQUADRE
In questo contesto è evidente come il calcio italiano nella sua interezza debba sforzarsi per offrire il migliore dei prodotti possibile per sperare di tornare ai fasti di un tempo. E d’altronde sia il presidente federale Gabriele Gravina sia la Lega Serie A stiano proponendo piani, anche molto articolati (e magari non semplici da realizzare nel concreto), per trovare una quadra sul tema riforme nei campionati. Quel che appare certo, anche osservando le altra leghe, è come appaia obsoleto il fatto che il prodotto di punta del nostro calcio quello he traina tutto il movimento, la Serie A, conti in sede federale soltanto per il 12% del totale dei voti, mentre le leghe che sono le vere concorrenti, ovvero la Bundesliga tedesca e la Ligue 1 francese (ovvero quelle che non possono cantare sulla potenza economica della Premier League e del traino di colossi come Real Madrid e Barcellona), hanno circa il 30% dei voti.
Nello stesso tempo anche all’interno della Lega Serie A la voce delle big, che sono quelle che trainano il movimento a livello europeo, dovrebbe essere maggiormente ascoltata, non foss’altro per il prestigio che portano al movimento.
Non a caso Inter, Juventus, Milan e Roma, ovvero le quattro che hanno votato per la diminuzione della Serie A a 18 squadre (e che assommano circa il 71% dei tifosi italiani) non demordono sul tema. Consapevoli da un lato che quattro giornate in meno di campionato sarebbe una garanzia di un minor numero di infortuni e nello stesso avere due squadre in meno in Serie A assicurerebbe una maggiore qualità dei parchi giocatori e quindi del torneo stesso.
Non solo ma le quattro big sono inoltre consce che i veri competitor del calcio italiano al momento non sono inglesi (troppo avanti) e spagnoli (che hanno il beneficio del traino di club planetari come Blancos e Blaugrana), ma la Bundesliga, che da tempo è a 18 squadre, e la Ligue 1 che ha abbassato il numero di squadre a partire dal 2023/24 con successo. Continuare a giocare ad handicap con i maggiori competitor equivarrebbe a un atto suicida.