L’ultimo grido di aiuto del calcio italiano concerne la possibilità di accedere ad una percentuale legata al monte totale delle scommesse sul calcio. Nel tentativo sempre più pressante di trovare nuovi mezzi per finanziare il movimento. «C’è una risoluzione dell’UE che riconosce il diritto d’autore: se si scommette per 16 miliardi di euro sullo sport e la maggior parte delle scommesse riguarda il calcio dobbiamo rivendicarlo attraverso delle forme di diritto», le parole del presidente della FIGC Gabriele Gravina nei giorni scorsi.«Sulle scommesse sullo sport la maggior parte è sul calcio. Non è pensabile che il calcio non veda nulla di tutto quello che lo Stato prende dallo sport. Parliamo di oltre un miliardo di euro pagato allo Stato», aveva commentato nelle scorse settimane anche il presidente della Lega Serie A Lorenzo Casini.
Un tema che era già stato lanciato negli anni scorsi dalla stessa FIGC, che aveva richiesto a gran voce, sulla base di una risoluzione dell’Unione europea, la tutela del diritto d’autore sulle scommesse, rifacendosi al sistema francese. La richiesta della FIGC in particolare era partita in epoca Covid ed era quella di ricevere una quota pari all’1% di quanto scommesso in Italia sul calcio. Qualcosa di simile a quanto fatto dal governo che negli anni più duri della pandemia che aveva creato il “Fondo per il rilancio del sistema sportivo nazionale” per gli anni 2021 e 2022 prelevando lo 0,5% del monte scommesse (con un tetto massimo a 40 milioni nel 2021 e 50 milioni nel 2022).
Considerando che nel 2022 la raccolta complessiva in Italia per le scommesse sportive è stata pari a 18,7 miliardi di euro, di cui 13,1 miliardi giocati sul pallone, il mondo del calcio qualora passasse questa norma si troverebbe ad incassare oltre 130 milioni aggiuntivi da dividere tra le varie componenti.
CALA L’IMPATTO DEL CALCIO SULLE SCOMMESSE IN ITALIA
Va anche notato per altro come sul prodotto calcistico nel 2013 verteva l’84,7% delle scommesse in Italia mentre nel 2022 tale valore è sceso al 70,4%. Inoltre non va scordato come il declino dell’attrattività verso il prodotto Serie A da parte degli scommettitori è testimoniato anche dall’incidenza del volume di raccolta delle scommesse su eventi della nostra massima serie registrato nel 2022, che si attesta al 15% del movimento complessivo delle scommesse sportive in diminuzione di oltre due punti percentuali rispetto all’incidenza registrata nel 2021 (17,1%, e con una contrazione delle somme complessive) e di quasi cinque punti percentuali rispetto al 2015.
Al di da questo però, alla luce dello scandalo che nelle settimane scorse ha portato alla squalifiche di giocatori come Nicolò Fagioli o Sandro Tonali (che, va ricordato, scommettevano tuttavia su piattaforme e siti illegali), è evidente come si ponga un tema di opportunità e di timing sulla questione. Ma pur lasciando perdere argomentazioni che potrebbero suonare moraliste in un settore ormai legato alle logiche del business, va soprattutto notato che lo schema francese non è la prassi in Europa. Quello transalpino infatti è l’unico esempio in Europa insieme al Portogallo che permette agli organizzatori di eventi sportivi di avere una percentuale sulle scommesse. E quello francese non va neanche considerato come esempio di modello virtuoso, considerando che in Francia non c’è concorrenza sul gioco ed è particolarmente sviluppato il gioco illegale (che secondo uno studio di PWC vale tra 750 milioni e 1,5 miliardi di euro).
Comunque sia tutte le altre leghe, a iniziare dalla Premier League che opera in Inghilterra, (tradizionalmente una delle patrie del betting a livello mondiale) alla Bundesliga passando per La Liga, non hanno contributi dalle scommesse. Lasciando queste opzioni ai due campionati tradizionalmente ai margini della storica Top 4 europea: per l’appunto la Ligue 1 e la Primeira Liga portoghese.
Anche perché le società di scommesse pagano già quanto dovuto allo Stato in termini di imposte: svolgono il ruolo di banco, pagando vincite e spese oltre alle tasse, con il margine che resta che serve per remunerare il rischio d’impresa dovendo anche stare attente a non “andare sotto”. E da qui nasce anche una certa contrarietà (che era già emersa in vari ricorsi al Tar per il fondo voluto dal governo nel 2021 e nel 2022) all’ipotesi di un ulteriore prelievo sul totale del monte scommesse.
È evidente che si tratta di un dibattito aperto ma bisogna tenere presente che il calcio non ha dato grande prova di gestione economica anche quando sembrava più semplice. «La formula banale del calcio è diminuire i costi e aumentare i ricavi e durante il Covid sembrava naturale un abbattimento dei costi, eppure sono aumentati. Anche in una situazione di crisi, il sistema non è riuscito ad abbattere i costi, che poi sono lo strumento attraverso cui si può ambire a migliorare la struttura dei ricavi. Non siamo riusciti a fare né l’una né l’altra cosa», ha spiegato il ministro dello sport Andrea Abodi nelle scorse settimane.
Insomma siamo sicuri che quand’anche il calcio italiano potesse usufruire di denari addizionali dalle scommesse li utilizzerebbe per implementare comportamenti societari virtuosi e non per inseguire giocatori più forti nel calciomercato? Andando quindi a ingrassare soltanto i portafogli degli atleti e dei loro procuratori.
È l’argomentazione che spinse il governo Draghi a non concedere aiuti diretti nell’immediato post-Covid oltre a concedere solo dei rinvii sul pagamento delle tasse e che è alla base della volontà del governo Meloni di voler eliminare i vantaggi fiscali sugli stipendi dei calciatori provenienti dall’estero legati al cosiddetto Decreto Crescita.
I NUMERI DELLA CRISI DEL CALCIO ITALIANO
Non è un mistero d’altronde che negli ultimi anni il settore stia affrontando una profonda crisi dovuta a diverse problematiche, dalle caratteristiche della governance del sistema alle difficoltà legate all’innovazione ad esempio sugli stadi, oltre a un calo dell’interesse per il calcio da parte delle nuove generazioni (questione quest’ultima comune a tutto il pallone a livello globale).
Sono tutti temi che poi hanno impattato direttamente anche sul lato economico. Visto che ad esempio nel 2021/22 il calcio professionistico italiano ha registrato una perdita aggregata a 1,4 miliardi di euro, il peggior dato degli ultimi 15 anni. Una situazione complessa, con costi che superano ancora notevolmente i ricavi soprattutto a causa di stipendi per calciatori e allenatori su cui i club non sono riusciti ad intervenire con tagli corposi durante gli ultimi anni.
Sul fronte dei ricavi, per esempio nel 2021/22 nonostante la capienza limitata dal Covid in varie partite il fatturato aggregato dei club di Serie A si è attestato a quota 2,9 miliardi di euro, con il 43% derivanti dai diritti tv e il 20% dalle sponsorizzazioni, quest’ultima voce stabile negli ultimi nonostante il divieto di accordi con operatori del settore del gambling introdotto con il cosiddetto Decreto Dignità nel 2018.
Dal punto di vista dei costi, invece, nel 2021/22 si sono attestati intorno a 3,8 miliardi, di cui il 50% come stipendi dei calciatori e 25% legati agli ammortamenti. Così come i costi, non accennano a diminuire anche i debiti, con un indebitamento complessivo per la Serie A pari a 4,9 miliardi di euro (nel 2013 era pari a complessivi 3 miliardi).
Nel 2022/23 le big di Serie A hanno ridotto lo squilibrio, ma la strada verso la sostenibilità è ancora lunga. In particolare, considerando le prime nove squadre della classifica dello scorso campionato, i ricavi sono saliti del 20% (da 2,1 a 2,6 miliardi), i costi sono rimasti stabili a 2,7 miliardi mentre le perdite sono passate da 723 a 285 milioni di euro.
Resta tuttavia una crisi strutturale, accelerata dalla pandemia legata al Covid e nonostante alcuni interventi governativi come lo spalmadebiti fiscali della Legge di Bilancio per il 2023. Permangono infatti una serie di difficoltà endemiche e irrisolte. Come per esempio la scarsa attrattività del prodotto Serie A soprattutto all’estero. «Sui diritti tv internazionali non riusciamo ancora ad ottenere quanto vogliamo: noi incassiamo 200 milioni dall’estero, la Premier League arriva a 2,2 miliardi», ha detto il presidente del Milan Paolo Scaroni nei giorni scorsi. Ma la Serie A incassa anche dai diritti televisivi nazionali guadagni inferiori rispetto a dirette concorrenti europee.
Mentre sullo sfondo ci sono sempre le problematiche note legati agli stadi, vecchi e poco di proprietà. Su circa 90 stadi professionistici italiani, la cui età media è di 61 anni per i soli impianti della Serie A, il 93% è di proprietà pubblica. Questo fa si che in gran parte degli stadi, vecchi e fatiscenti, all’interno dei quali le società calcistiche non possono svolgere ulteriori attività remunerative se non quelle strettamente legate alle partite svolte. In Germania e, soprattutto, in Inghilterra, la percentuale di stadi di proprietà pubblica scende drasticamente al 40% e al 20% del totale.