La prima è una battaglia per la quale si discute molto e che vede tutti i club uniti per il mantenimento di una norma che garantisce al calcio un particolare privilegio verso lo Stato, la seconda invece è tuttora sottotraccia e se ne è parlato molto poco ma potrebbe creare presto grande scompiglio nel settore del pallone professionistico. Sono due infatti le principali battaglie che il calcio italiano, spesso diviso al suo interno, ha di fronte a sé.
La prima è quella per il mantenimento del Decreto Crescita. Ovvero quella norma che prevede vantaggi fiscali per chi sposta la propria residenza in Italia, con i redditi prodotti nel nostro Paese che vengono pesati solo al 50% in termini fiscali, con l’obbligo di essere stati residenti all’estero nei due periodi d’imposta precedenti al trasferimento in Italia, l’obbligo di permanenza per due anni dopo il trasferimento e lo svolgimento dell’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano.
La seconda invece, che come si diceva sobbolle sottotraccia, non sembra per niente essere sintomo di unità tra le società e concerne il cosiddetto «Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza» nelle ristrutturazione debiti le cui ultime modifiche sono del luglio 2022. Ovvero l’insieme di norme e strumenti volti a identificare lo stato di crisi dell’impresa e le soluzioni che permettano il superamento della crisi medesima e il ripristino della funzionalità economica aziendale dell’impresa. Infatti tra gli altri istituti previsti dal Codice esiste quello della ristrutturazione del debito, condizionato al provvedimento di omologa del piano finanziario sottostante da parte del Tribunale competente. E queste nuove norme, pensate per i settori merceologici tradizionali, stanno facendo sempre più spesso capolino anche nel calcio.
Tanto che nei tempi recenti tre società di calcio (Reggina per 10 milioni, Sampdoria per 90 milioni e Genoa per 70 milioni, quest’ultimo svelato da Calcio e Finanza nei giorni scorsi) hanno chiesto e in due casi (si attende solo il via libera del Tribunale per il Genoa) raggiunto accordi di ristrutturazione con i debitori (tra cui il più significativo è sicuramente l’Agenzia delle Entrate), stralciando debiti complessivi per oltre 170 milioni. E tale ristrutturazione ha presumibilmente consentito a Sampdoria e Genoa di evitare il fallimento.
In questo quadro, secondo quanto ha appreso Calcio e Finanza, all’interno della cerchia dei massimi dirigenti dei club della massime divisioni italiane inizia a insinuarsi il dubbio che vi sia un elemento distorsivo del panorama competitivo nei confronti degli altri club. «Ma come, i proprietari del Genoa (il fondo 777 Partners, ndr) sono in lizza per comprare l’Everton in Inghilterra e poi possono avere lo stralcio del debito dal nostro erario?», ha domandato a questa testata un presidente di un club molto noto. Non solo ma la paura è che questa tendenza possa allargarsi anche ad altri club. «Se se ne sono giovate Genoa e Sampdoria (e anche la Reggina, ndr)», ha proseguito, «perché altra società in difficoltà non potrebbero pensare di fare lo stesso?». Per esempio dando un occhio alla situazione dei debiti tributari dei grandi club si nota che la Lazio al 30 giugno scorso era esposta per 67 milioni e l’Inter per 66 milioni, anche se ovviamente questo non significa che biancocelesti e nerazzurri stiano valutando questa opportunità
Quel che è certo però è che entrambe queste battaglie, molto diverse tra loro, portano con sé il pericolo di fare apparire dinnanzi ai cittadini contribuenti il calcio come il solito “egoista” che se ne sbatte delle esigenze della società. E siccome la controparte di entrambe le vicende è lo Stato che necessariamente deve tenere conto degli umori popolari le questioni non sono semplici. Visto anche che se è vero che il governo Meloni lo scorso anno consentì il via libera alla norma spinta in particolare dal senatore e patron della Lazio Claudio Lotito sulla possibilità di spalmare i debiti col fisco, è altrettanto vero che il governo Draghi permise solo dei rinvii sul tema del pagamento delle tasse, senza alcun ristoro al mondo del calcio (mentre altri settori come il cinema hanno ricevuto oltre un miliardo di euro).
LA SERIE A IN DIFESA DEL DECRETO CRESCITA
Entrando nello specifico della battaglia sul Decreto Crescita, come si spiegava, va notata , e sarebbe stupido il contrario, l’unità di intenti dell’intero universo calcistico. Parlando al Social Football Summit tenutosi in settimana allo Stadio Olimpico il presidente della Lega Serie A Lorenzo Casini ha perorato questa causa spiegando: «Il quadro normativo deve aiutare la Serie A, togliere ora il Decreto Crescita non sarebbe il momento giusto. Aspettiamo di raccogliere dati e capire se ha funzionato o no intanto».
A stretto giro di posta parlando al convegno organizzato a San Siro dallo studio legale DLA Piper gli hanno fatto eco numerosi presidenti e massimi dirigenti di Serie A. «Bisogna andare avanti con questo decreto. Non bisogna dimenticare che un’attività come la Serie A perde un milione al giorno perché c’è una norma (quella sulla pirateria, ndr) non attuata. Il “pezzotto” ha un milione e mezzo di abbonati e ci mancano così 350 milioni di ricavi. Il Decreto Crescita è un modo per dare al calcio un piccolo aiuto che magari non è stato dato prima, per esempio nella lotta alla pirateria», ha tuonato il presidente del Torino Urbano Cairo.
Mentre Giorgio Furlani, amministratore delegato del Milan, ha spiegato: «I risultati sportivi portano nuovi ricavi ma purtroppo salta tutto se non c’è più il decreto crescita. Toglierlo sarebbe una distruzione per il calcio italiano. Con il decreto crescita siamo tornati a fare risultati in Europa che prima non si ottenevano. L’unica leva che ci rende competitivi con gli altri campionati top europei è il decreto crescita, che si traduce per noi ad esempio con campioni che portano sponsor di capitali stranieri che entrano in Italia che noi reinvestiamo sul territorio».
Non certo meno importanti sono state le parole del presidente della Lazio Claudio Lotito : «C’è un tentativo di eliminare il decreto. Io più che eliminare le cose in corso, che porterebbero dei danni a tante persone, penso che sia giusto scadenzare in un tempo che salvaguardi cinque anni di contratto la possibilità di modificare la norma. Noi dobbiamo creare par condicio per tutti».
Ma a confermare che la questione è tutt’altro che semplice sono state le parole del ministro dello Sport Andrea Abodi, che ovviamente ha fatto notare il punto di vista del governo. Il ministro ha prima tirato le orecchie al mondo del calcio: «La formula banale del calcio è diminuire i costi e aumentare i ricavi e durante il Covid sembrava naturale un abbattimento dei costi, eppure sono aumentati. Anche in una situazione di crisi, il sistema non è riuscito ad abbattere i costi, che poi sono lo strumento attraverso cui si può ambire a migliorare la struttura dei ricavi. Non siamo riusciti a fare né l’una né l’altra cosa».
Abodi nelle scorse settimane avevao poi confermato l’intendimento del governo di una progressiva eliminazione della norma: «Lo strumento del Decreto Crescita va progressivamente disattivato, ma che va fatto con un senso logico, certamente non per quanto riguarda la stagione corrente: quando si cambia una norma che ha prodotto effetti rilevanti dal punto di vista tecnico e della qualità del prodotto, anche se ha messo in discussione spazi che invece io vorrei che fossero occupati da giocatori italiani, bisogna comprendere l’effetto che si produce», aveva spiegato il ministro. Abodi ha poi proseguito: «La mia prima preoccupazione è equiparare sicuramente gli strumenti che sono stati dati al calcio professionistico a tutti gli altri settori perché non ci sia un’idea di privilegio». Lanciando una ciambella di salvataggio sui contratti in essere: «I contratti in essere non credo che possano essere negati, anche perché ci sono società quotate», ha osservato il ministro.
Infine proprio dalle colonne di Calcio e Finanza ha lanciato l’idea di un tavolo di discussione sul tema: «Dobbiamo misurare l’impatto, diretto e indiretto, di questa norma e poi valutare come intervenire. Ritengo opportuno coniugare nel modo migliore l’esigenza di offrire maggiori spazi ai giovani talenti calcistici italiani, con quella altrettanto importante di sostenere la competitività dei nostri club, certamente migliorata anche grazie agli effetti prodotti dal decreto crescita. È arrivato il momento di un “tagliando” che consenta di decidere come intervenire, senza pregiudicare valore, sportivo ed economico».
I PRO E I CONTRO DEI VANTAGGI FISCALI PER I CALCIATORI
E proprio l’idea di un tavolo di settore sul tema, di una analisi approfondita tra le varie parti in questione potrebbe essere la soluzione.
In questo contesto è utile notare quali erano in origine e sono gli obiettivi del Decreto Crescita applicato al calcio. Questi prevedevano che tramite l’agevolazione fiscale vi sarebbe stato un incremento della capacità di attrarre campioni dall’estero nei nostri campionati, giocatori di livello tale da migliorarne il livello tecnico, accrescendone la spettacolarità e, in un’ultima analisi, il valore economico.
Quali risultati sono stati ottenuti rispetto ai suddetti obiettivi? Nessuna analisi è stata condotta (almeno non è nota a livello pubblico), per cui non è possibile una valutazione oggettiva. Quindi in assenza di una valutazione della misura, gli operatori si dividono aprioristicamente, tra fazioni pro e contro Decreto Crescita:
- pro: contribuisce a mantenere un livello di competitività tale da aver assicurato tre finaliste nelle competizioni europee nella passata stagione e, dunque, il sostanziale interesse per la Serie A;
- contro: non garantisce comunque di acquisire campioni (il vantaggio del beneficio fiscale non compensa l’enorme differenziale di attrattività economica di mercati quali l’Inghilterra o l’Arabia Saudita) ed è concausa dell’aumento della percentuale degli stranieri sul totale dei giocatori, determinando peraltro un disincentivo a investire nei vivai e, dunque, alla produzione di giocatori italiani con effetto negativo anche sulla competitività delle nazionali.
Qualche operatore fa così notare che, a prima vista, sembrerebbe che il Decreto Crescita abbia avuto sicuramente effetti quantitativi (ingresso di molti giocatori stranieri, generalmente di medio livello), mentre quelli qualitativi non sono stati ai livelli che la norma si auspicava (pur non negando che, nel corso degli anni casi, giocatori e tecnici di grande caratura siano stati impatriati nei nostri campionati grazie al Decreto).
Pertanto la norma ha centrato molto limitatamente gli obiettivi che si poneva, e questo ha determinato un effetto distorsivo a danno dei giocatori italiani. Insomma, al di là di casi eccelsi quali Lukaku, Leao o Thuram, si portano in Italia giocatori di medio livello dall’estero che magari fanno fare figure dignitose ai club italiani in Europa ma che inevitabilmente depauperano il patrimonio nazionale con evidenti danno per le selezioni azzurre.
In questo quadro una soluzione potrebbe essere quella di modificare la norma in senso qualitativo, per esempio prevedendo criteri di accesso all’agevolazione più restrittivi. In tal modo si continuerebbe ad avere l’agevolazione sui profili di grande caratura, che realmente possano portare beneficio ai club italiani e al movimento nazionale. Al tempo stesso si limiterebbe il numero degli stranieri a favore degli italiani, non disincentivando, tra l’altro, gli investimenti nei vivai.
IL CODICE DELLA CRISI E GLI EFFETTI SUL CALCIO
Entrando nello specifico del secondo punto va detto che le ristrutturazioni dei debiti per Reggina, Genoa e Sampdoria sono avvenute in un quadro di legittimità normativa. Il problema, spiegano esponenti di alcuni club, è vedere se il Codice della Crisi sia o meno compatibile con le caratteristiche del calcio professionistico e se la sua applicazione mina la credibilità del sistema, nonché l’equa competizione. In termini tecnici, il Codice della Crisi è pensato per un contesto dove il perseguimento del profitto e l’equilibrio economico–finanziario sono obiettivi fisiologici e situazioni differenti sono eccezioni patologiche.
Nel calcio ciò non è verificato: il disequilibrio è una condizione diffusa, spesso di lungo periodo, a cui gli azionisti/soci pongono rimedio tramite apporti di capitale, perseguendo strategie, nella maggior parte dei casi assolutamente razionali, che non si radicano nel ritorno economico diretto da parte del club calcistico. Pertanto se nel mondo “normale” il Codice della Crisi è strumento di necessità, per ritornare sulla traiettoria dell’equilibrio, nel calcio, invece, può diventare strumento di opportunità per stralciare debiti che sarebbero comunque stati esistenti e, verosimilmente, ritorneranno ad esistere.
Peraltro, si fa notare, i debiti sono derivanti prevalentemente dalle ritenute IRPEF da lavoro dipendente, per cui si abbatte proprio la componente di cui si vorrebbe contrastare il trend di crescita, ossia i costi degli stipendi. E il pericolo è che si incentivino comportamenti di azzardo e una competizione squilibrata a danno di coloro che non intendono avvalersi di tali soluzioni. Per esempio una ipotesi è quella di fare all-in sulla promozione attraendo giocatori competitivi con stipendi elevati, contando poi che una componente significativa del costo legata ai debiti sarà stralciata. Inoltre c’è un fattore che rende ancora più attraente la prospettiva dello stralcio: ossia la massa debitoria generata dalla sospensione e rateizzazione dei debiti fiscali determinata dalla Legge Bilancio 2022. L’ammontare globale “stralciabile” è infatti molto significativo.
Insomma il tema potrebbe diventare più caldo che mai anche perché per il momento la FIGC sembra non voler intervenire perché la competenza è della giustizia ordinaria e bisognerà vedere se il governo avrà tempo per varare norme che limitino per le società di calcio l’accesso a tali strumenti.