La cessione del Manchester United, il cui processo è ufficialmente iniziato dopo le offerte presentati da parte dello sceicco del Qatar Jassim Al Thani e il patron di Ineos James Ratcliffe, ha tutti i presupposti per diventare uno spartiacque nel mondo dello sport e business, alzando a una nuova dimensione il livello.
Per la prima volta nella storia infatti gli stati del Golfo non hanno messo nel mirino un club in crisi da fare poi crescere negli anni – così come è successo con il Manchester City o il Newcastle – o una società con poca storia alle spalle come il PSG (fondato nel 1970), ma sono andati dritti su un club che è uno dei pilastri fondanti della élite ristrettissima della storia del calcio europeo. Nel mondo anglosassone i Red Devils, malgrado abbiano vinto soltanto tre Champions League contro le sei degli storici rivali del Liverpool, sono considerati, per potere, numero di tifosi, numeri di bilancio ma anche per aura – Sir Matt Busby, Duncan Edwards, Bobby Charlton, George Best e la tragedia di Monaco nel 1958 – l’unico club avvicinabile allo status mondiale del Real Madrid.
Non a caso, nonostante dalla parti di Old Trafford l’ultimo decennio sia stato povero di soddisfazioni sul campo, in termini economici il Manchester United ha sempre avuto numeri brillanti. In virtù del numero di tifosi sparsi in tutto il mondo, della propria forza commerciale e di uno stadio sempre sold out, per esempio, il club inglese è sempre stati nella top 5 della Deloitte Money League che misura la capacità dei club di produrre ricavi. Ed è anche in virtù di questo che come Calcio e Finanza ha potuto ricostruire in settimana, gli attuali proprietari, la famiglia statunitense dei Glazer, sembrano poter portare a termine un deal particolarmente significativo. Con un incasso che potrebbe arrivare quasi a 6 miliardi di guadagno netto in meno di 20 anni.
MOTORE POTENTE E SOLDI DAL GOLFO: L’IMPATTO SUL CALCIO EUROPEO
Per tutto questo, la domanda è: che cosa potrà mai fare un proprietà dalle potenzialità virtualmente illimitate e senza l’assillo di fare soldi subito come quelle del Golfo se immetterà la propria potenza di fuoco finanziaria in un motore ad altissima cilindrata come quello del Manchester United?
Un motore si badi bene che consentito in tutti questi anni ai Glazer di acquistare il club a debito, ottenerne talmente tanti soldi non solo da ripagare l’indebitamento ma anche di percepire i dividendi nonostante non sia mai mancato l’impegno in sede di mercato con svariate centinaia di milioni di sterline sempre investite nell’acquisto di giocatori e tecnici. Gli insuccessi sportivi degli ultimi anni sono infatti da legarsi per lo più a scelte tecniche sbagliate e non a mancati investimenti.
In questo quadro sarà interessante capire per bene se il White Paper recentemente pubblicato da governo britannico pone limitazioni alle proprietà straniere, considerando che verranno introdotte, tra le altre cose, verifiche più stringenti e due diligence più approfondite su coloro che si apprestano ad acquisire le società calcistiche inglesi oltre che controlli maggiori sulla gestione economico-finanziaria dei club. E nello stesso modo, qualora il Qatar diventasse proprietario del Manchester United, sarebbe opportuno investigare i criteri della licenze UEFA visto che lo stato del Golfo è già proprietario di un altro colosso della élite calcistica come il PSG, alla luce anche del fatto che la Qatar Investment Authority (tramite cui il Qatar controlla i parigini) è la principale azionista della Qatar Islamic Bank (QIB) di cui Al Thani è presidente. Quel che è sicuro è che sembra di essere arrivati a un punto di svolta, a una situazione tipica dei settori industriali maturi dove si compra uno dei grandi player per poter rivaleggiare da subito ai massimi livelli.
In questo quadro si può dire che sembra superato, almeno per quanto riguarda la ristrettissima élite formata da club quali Real Madrid, Barcellona (al netto dei suoi problemi giudiziari e di debito), Bayern Monaco, PSG, Manchester City e Manchester United (e vedremo se vi entrerà anche il Newcastle saudita) quel paradigma di duopolio tra fondi del Golfo e fondi di investimento statunitensi, con questi ultimi che oltre alle vittorie guardano anche a una certa reddita finanziaria e sostenibilità nei conti.
Per essere al vertice della catena alimentare – ovvero fare parte di quei pochissimi club insomma che non rivendono i propri migliori talenti – bisogna avere qualcosa di più peculiare che un progetto economico, seppur sostanzioso e valido di crescita economica e di valorizzazione di un club. Bisogna avere la possibilità di poter investire a lungo anche senza ritorni immediati. In poche parole bisogna essere istituzioni come Real Madrid e Barcellona che virtù della normativa fiscale su cui si fonda il calcio spagnolo godono di vantaggi erariali non indifferenti; alternativamente bisogna essere l’unico grande player della maggiore potenza economica europea come il Bayern Monaco con sponsor come BMW e Audi (gruppo Volkswagen) che fanno a gara per affiancare i bavaresi; oppure avere come proprietari fondi sovrani o che fanno capo ai Paesi del Golfo, dalle potenzialità economiche illimitate.
Probabilmente anche a causa del tramonto del progetto Superlega, il percorso tipico dei private equity basate su tappe quali acquisto di club in difficoltà, risanamento, redditività, successi e cessione apparterrà alla seconda fascia del calcio europeo. Una fascia alla quale possono appartenere club immediatamente al di sotto di questi giganti. L’approccio statunitense volto anche a ricercare una redditività dell’investimento sembra ormai destinato a club al di fuori questi ristrettissima élite. In questa seconda fascia rientrano per esempio le squadre italiane o molte squadre di Premier League. Senza dimenticare come ha mostrato uno studio redatto in esclusiva per Calcio e Finanza dalla società di consulenza aziendale Alix Partners anche gli investimenti in società nelle serie inferiori.
Non a caso nella trattiva per lo United i grandi fondi americani – tra questi come l’ex proprietario del Milan di Elliott, Oaktree (finanziatori di Suning per il controllo dell’Inter) e Ares – si sono proposti come finanziatori ma non come acquirenti.
I CASI LIVERPOOL E CHELSEA, DIVERSI DALLO UNITED
Si dirà: e il Liverpool, posseduto dagli statunitensi di Fenway Sports Group? E il Chelsea del nuovo proprietario americano Todd Boehly che ha speso nel solo mercato invernale qualcosa come 330 milioni di euro? Per quanto concerne i Reds l’intervista con cui John Henry, il numero uno di Fenway Sports, ha spiegato in settimana che il Liverpool non è in vendita è suonata un po’ una risposta tipo la volpe e l’uva. Visto che la stampa inglese non solo è stata concorde per giorni sul fatto che il Liverpool fosse sul mercato ma anche che proprio il club della Merseyside era nel mirino dello sceicco Al Thani insieme al Manchester United.
Inoltre l’ammissione di Henry, sempre nella stessa intervista, che Fenway sta soltanto cercando soci di minoranza è suonata un po’ come una presa d’atto che neppure la miglior gestione sportivo/finanziaria vista negli ultimi anni può reggere il passo con i nuovi investitori (come ammise d’altronde proprio l’allenatore dei Reds Jurgen Klopp). E pertanto ha bisogno di sostegno.
L’operazione Boehly sul Chelsea invece è necessariamente sui generis, non solo perché il tycoon USA ha comprato un club ceduto per forza a causa della guerra tra Russia e Ucraina, ma soprattutto perché il magnate americano ha sì speso una cifra inverosimile ma seguendo un progetto di contratti di lunghissima durata, sfidando i regolamenti UEFA. Un esborso gigantesco subito per impostare poi un lavoro di lunghissima durata che come detto non solo è border line per i regolamenti UEFA ma anche per le norme per il Fair Play Finanziario, soprattutto se la squadra non dovesse qualificarsi per la prossima Champions League. Quasi un all in che è tutto da vedere se pagherà, ma quel che è certo è che difficilmente il Chelsea dopo questa sessione di mercato monstre ne replicherà delle altre negli anni a venire. Anzi è probabile che da giugno inizi a sfoltire.
Tornando al Manchester United, va notato inoltre un altro punto. Quand’anche la spuntasse Ratcliffe, l’operazione comunque assomiglierebbe di più a un investimento classico improntato ai risultati sportivi che non allo schema finanziario di cui sopra tipico dei fondi USA.
Sir James Ratcliffe è nato a Manchester ed è tifoso dello United da sempre. Nel frattempo è diventato uno degli uomini più ricchi del Regno Uniti e ha promesso di riportare “un po’ di Manchester nel Manchester United” con ovvio riferimento alla americanizzazione della società sotto la famiglia Glazer. In particolare qualora l’affare andasse in porto Ratcliffe creerebbe una polisportiva di altissimo livello considerando che ha già nel portafoglio un top team di ciclismo Ineos oltre al club calcistico del Nizza in Francia. I detrattori sostengono che si tratta di una operazione di green whashing visto che le attività industriali di Ratcliffe sono nel mirino di molte istituzioni e associazioni ecologiste, ma quel che appare certo che l’investimento non sembra quello di chi mette soldi per poter rivendere a un pezzo maggiore nel medio termine. Qui l’impegno sembra di lunghissimo periodo e come nel caso delle operazioni lanciate dai Paesi del Golfo l’obiettivo di redditività economico appare secondo a quello di potenza sportiva.
L’ÉLITE DEL CALCIO SEMPRE PIÙ RISTRETTA, MA C’È SPAZIO PER LE SORPRESE
Detto questo, se è vero che si va verso una aristocrazia del calcio europeo sempre più limitata, non è detto che non ci sia spazio per exploit di altri club. Tutt’altro. Questa élite è destinata probabilmente a rappresentare il nocciolo duro del calcio europeo ma man mano che si restringe il numero dei suoi club si riduce anche il numero di giocatori che giocano per queste società, visto che una rosa è normalmente fatta da 20 giocatori. E questo lascia molto margine di manovra per quei club che sapranno operare bene sia in termini tecnici sia in termini economici. Per farla breve con gli “scarti” di queste 5/6 rose si possono costruire grandissime rose. D’altronde la storia del calcio è piena di trionfi costruiti con scarti di altri: lo scudetto dell’Hellas Verona nel 1985 è sempre l’esempio più chiaro ma si perde nella notte dei tempi.
Ma a ben guardare in parte anche l’Inter del Triplete venne costruita su alcune mosse opportunistiche: Lucio era considerato troppo vecchio per giocare nel Bayern Monaco, Sneijder era a tutti gli effetti uno scarto del Real Madrid ed Eto’o era stato ritenuto sacrificabile dal Barcellona per arrivare a Ibrahimovic. Poi venne il Fair Play Finanziario che cristallizzò le gerarchie e di queste imprese non se ne videro più. Ora questa nuova ristrettissima nuova élite paradossalmente potrebbe invece produrre nuove sorprese. Se insomma l’aristocrazia nel calcio europeo sarà sempre meno numerose, non è detto però si vada verso un monopolio anche a livello sportivo.