Too big to fail, ovvero troppo grande per fallire. In questo modo durante la crisi economica del 2008 si definivano banche, istituti creditizi o aziende considerate troppo grandi perché potessero essere lasciate andare in bancarotta. A distanza di anni questa sembra essere la situazione del calcio italiano, come è emersa dalla 12ª edizione del ReportCalcio, il documento pubblicato in settimana e sviluppato dal Centro Studi FIGC in collaborazione con AREL (Agenzia di Ricerche e Legislazione) e PwC Italia (PricewaterhouseCoopers): il movimento è infatti troppo importante – e anche garanzia di grandi entrate fiscali per lo Stato – per poter fallire. Nel contempo però i fondamentali finanziari fanno tremare i polsi e se non si inverte presto la rotta il declino degli ultimi anni sarà sempre più inarrestabile.
Il corposo studio evidenzia infatti come il calcio professionistico italiano palesi un profilo estremamente preoccupante dal punto di vista della sostenibilità economico-finanziaria. E se è vero che il Covid ha accentuato i problemi va detto però che lo squilibrio strutturale già prima della pandemia risultava particolarmente evidente.
Infatti, nei 12 anni analizzati prima della pandemia (dal 2007-08 al 2018-19), il calcio professionistico italiano ha prodotto un rosso aggregato pari a circa 4,1 miliardi di euro, che salgono a quasi 6,3 miliardi calcolando anche le perdite delle stagioni del Covid: ovvero 1,3 miliardi nel 2020/21 e 878 milioni nel 2019/20. Una perdita, come ha sottolineato il presidente della Figc Gabriele Gravina, di quasi 1 milione al giorno. Ed evidentemente una evidentemente insostenibile per qualsiasi settore merceologico. In pratica se non fosse che il calcio rappresenta in Italia un asset che va al di là dei numeri di bilancio (oltre che un grande datore netto per lo Stato in termini di tasse) i libri dell’intero sistema sarebbero già in tribunale.
Entrando nel particolare, il fatturato aggregato dei club di Serie A, B e C ha raggiunto nel pre Covid-19 quasi 3,9 miliardi di euro (nella stagione 2018/19), con un aumento di 1,5 miliardi rispetto a 12 anni prima. A cui si devono aggiungere entrate per 3,6 miliardi nel 2019/20 e per 3,6 nel 2020/21 per un totale di 36,4 miliardi in 12 anni.
Attenzione però: 7,5 di questi miliardi sono state plusvalenze, senza le quali la situazione sarebbe ancora più grave. Ora senza entrare nella annosa questione della natura delle plusvalenze, è evidente che le plusvalenze cosiddette “sane”, ovverosia quelle fatte tramite vera corrispondenza di denaro (vedi la cessione di Hakimi al Psg ad esempio, per restare a uno dei casi più recenti) hanno portato alla vendita di talenti soprattutto all’estero e quindi a depauperare il patrimonio tecnico della Serie A. Quelle invece concluse con scambi di giocatori (senza scambi di cassa) hanno portato i club a poter iscrivere ricavi immediati l’anno della transazione salvo poi dover iscrivere pesanti ammortamenti duranti gli anni del contratto. Non a caso nei 14 anni intercorsi tra il 2007 e il 2021 gli ammortamenti complessivi sono saliti a 10 miliardi e oggi il costo degli organici (stipendi più ammortamenti) rappresenta oggi il 101% dei ricavi netti: in Serie A nella stagione 2020/21 il costo imputabile al personale tesserato è stato pari a 2,67 miliardi (di cui 1,8 miliardi in stipendi e oltre 870 milioni in ammortamenti), mentre i ricavi al netto delle plusvalenze si sono fermati a 2,64 miliardi.
E non si dica che è stata colpa del Covid. Quasi il 90% della crescita dei ricavi tra il 2007-2008 e il 2018-2019 (ovvero l’epoca pre-pandemia) è stata utilizzata per coprire l’aumento degli stipendi e degli ammortamenti/svalutazioni. L’indebitamento totale non a caso ha raggiunto nel 2018-2019 quasi 4,8 miliardi di euro, circa il doppio rispetto ai 2,4 miliardi registrati nel 2007-2008. Mentre nelle due stagioni con impatto Covid-19 (19-20 e 20-21) l’indebitamento è salito dai 4,8 miliardi di euro del 2018-2019 ai quasi 5,4 miliardi del 2020-2021.
Come nelle precedenti stagioni, si osserva un gap significativo tra le medio-piccole e le grandi società sia dal punto di vista del fatturato che dei costi. Nello specifico, l’incidenza sul totale dei ricavi dei primi 5 club sui 20 della Serie A (Juventus, Inter, Milan, Napoli e Atalanta) si attesta al 53%. Mentre per quanto concerne i costi della produzione i 5 top club (Juventus, Inter, Milan, Roma e Napoli) costituiscono il 55% del totale dell’intera Serie A.
MA IL CALCIO È ANCHE UN GRANDE AFFARE PER LO STATO TRA TRIBUTI E RENDITA
Però c’è anche un rovescio della medaglia. Se è vero che il sistema fa acqua, è altrettanto vero che serve sia allo Stato che all’intero sport system italiano. Il calcio professionistico italiano infatti è uno dei principali settori industriali italiani oltre a essere un asset strategico dell’intero Sistema Paese ed è un comparto economico in grado di coinvolgere 12 diversi settori merceologici nella sua catena di attivazione di valore, con un impatto indiretto e indotto sul PIL italiano pari a 10,2 miliardi di euro (circa lo 0,6% del totale) e oltre 112.000 posti di lavoro attivati.
A livello fiscale e contributivo, il solo calcio professionistico ha prodotto inoltre nel 2019 un gettito complessivo pari a quasi 1,5 miliardi di euro (1,476 miliardi nel 2019, +6% rispetto al 2018 e +71% rispetto al 2006), dato che equivale a circa il 70% del contributo fiscale generato dall’intero sport italiano. Complessivamente negli ultimi 14 anni la contribuzione ammonta a circa 15,5 miliardi di euro, e per ogni euro investito dal Governo italiano nel calcio, il Sistema Paese ha ottenuto un ritorno in termini fiscali e previdenziali pari a 18,3 euro.
La voce più alta continua a riguardare le ritenute Irpef, che pesano per il 54% del totale (rispetto al 51% del 2018), per un dato pari a 797,3 milioni di euro. Prosegue anche la crescita del reddito da lavoro dipendente, in aumento tra il 2018 e il 2019 dell’11,9%, fino a superare gli 1,9 miliardi di euro, mentre si riduce il numero dei contribuenti (12.055, rispetto ai 12.345 del 2018). Il numero di lavoratori dipendenti con redditi superiori a 200.000 euro raggiunge quota 1.150, il dato più alto tra quelli registrati dal 2006.
Il calcio professionistico inoltre continua a rappresentare il principale sistema sportivo dal punto di vista della contribuzione fiscale, con un’incidenza del 68,7% rispetto al gettito complessivo generato dal comparto sportivo italiano, dato in aumento rispetto al 68,1% registrato nel 2018. Prosegue inoltre la significativa crescita della contribuzione previdenziale Inps, che risulta più che raddoppiata tra il 2006 e il 2020 (passando da 74,2 a 156,5 milioni di euro).
LE RIFORME ALLE PORTE E IL MONITO DI MARCHIONNE
Insomma è evidente che non si può lasciare andare al macero un sistema che conta così tanto. Secondo il presidente federale Gravina una prima prima mosira urgente è quella dell’indice di liquidità: «Il 79% delle nostre società ha chiuso in perdita. E nonostante la perdita crescente il costo del lavoro è aumentato in maniera spropositata rispetto ai ricavi», ha spiegato il numero uno del calcio italiano. «C’è una sorta di miopia nel non voler prendere coscienza di un insieme di azioni che bisogna porre in essere per rivoluzionare la politica di gestione. Rinviare il tema della mancanza di liquidità a una data futura porta a conseguenze gravi, è l’anticamera di una prefallibilità. Il rapporto dell’indice 0,6 è minimo indispensabile, ma faremo di tutto perché gli altri indicatori siano più stringenti. Il mio auspicio è portare entro il 28 luglio una nuova riforma delle Licenze Nazionali su piano triennale», ha poi terminato il presidente federale.
Oltre alla vexata questio dell’indice di liquidità – si tenga presente che lo 0,6 resta comunque un indice generoso considerando i gli altri settori merceologici – la FIGC, come svelato dal Corriere dello Sport in settimana, sta pensando di introdurre una novità importante in materia di controllo dei costi, in particolare per quanto riguarda quelli legati agli stipendi e agli ammortamenti dei calciatori.
Si tratta, tra le altre norme, del modello UEFA utilizzato per riscrivere il Fair Play Finanziario, detto “squad cost ratio”. In sostanza parliamo del rapporto tra i ricavi e i costi legati alla squadra (stipendi e ammortamenti per i calciatori), con un tetto che non deve superare una certa soglia rispetto al fatturato.
Nel caso della UEFA questo tetto è stato fissato al 70%, da raggiungere entro tre anni (si partirà dal 90% per arrivare al 70%). I nuovi regolamenti vedranno infatti per la prima volta i club soggetti a controlli sui costi legati alla squadra. La regola di controllo dei costi limita la spesa per gli stipendi di giocatori e allenatori, i trasferimenti e le commissioni degli agenti al 70% delle entrate del club.
L’Italia da parte sua vorrebbe partire subito con l’80%. Sulle plusvalenze invece, con le quali i club potrebbero correggere gli indicatori sotto esame, la FIGC sta ragionando in termini di “saldo attivo”, la differenza effettiva tra acquisti e cessioni nell’intervallo di tempo considerato.
Basterà? Prima bisognerà capire se la riforma passerà e poi si vedrà. Certamente il fatto che la FIGC sia pronta a dare una scossa non può non essere visto come salutare. Quel che è ancora più certo però è che occorre agire in fretta, perché se non si agisec adesso si rischia un declino sempre più irreversibile. E in questo senso l’arrivo di tante propreità nordamericane potrebbe rappresentare un punto di svolta.
Al momento infatti la squadre italiane vivono in una sorta di punto di equilibrio di mercato molto interessante ed è per questo che sono nel mirino di molte proprietà straniere. Infatti da un lato godono dell’allure di campionato comunque molto prestigioso, dall’altro vista la difficile situazione finanziaria di molti club e le minori entrate garantite dai diritti tv dal nostro torneo hanno prezzi di acquisto più abbordabili rispetto per esempio ai prezzi dei club Inghilterra per esempio.
Ma il punto è che se l’andazzo di questa pessima gestione finanziaria dovesse continuare è evidente che i club italiani saranno costretti ad allestire squadre sempre meno competitive sul piano internazionale facendo svanire a tendere quell’allure di cui ancora gode il nostro torneo.
Qualche tempo fa, quasi un anno prima della sua morte avvenuta nel luglio 2018, chi scrive era a pranzo con Sergio Marchionne nella buvette con vista sulla storica pista all’ultimo piano del palazzo del Lingotto a Torino. Erano i tempi in cui il manager italo-canadese aveva prennaunciato che presto avrebbe lasciato gli incarichi operativi in Fca (Stellantis era ancora di là da venire) per concentarsi sulla Ferrari, della quale era già presidente. E tra i tanti argomenti trattò il tema del blasone e dell’allure di un marchio e di prodotto speigando che “la Ferrari è un brand fantatstico, forse il miglior marchio al mondo, ma anche i migliori brand devono essere smerigliati e lucidati con competitività e soprattutto vittorie, altrimenti anch’essi perdono quell’allure conquistato nel passato”.