L'affare Neymar oltre il calcio, quali equilibri geopolitici dietro l'investimento

L’affare Neymar non è solo una questione sportiva. Basta osservare le cifre mastodontiche che ballano e gli attori in campo. Il campione brasiliano passa dal Barcellona al Paris…

Presentazione Neymar

L’affare Neymar non è solo una questione sportiva. Basta osservare le cifre mastodontiche che ballano e gli attori in campo. Il campione brasiliano passa dal Barcellona al Paris Saint Germain, squadra di proprietà di Tamim bin Hamad al-Thani.

Il giocatore verrà “assunto” come testimonial dei Mondiali che il Qatar organizzerà nel 2022 così da poter pagare da solo la clausola rescissoria che lo lega al club spagnolo. La regia della più grande operazione di calciomercato della storia è affidata al Qatar Sports Investment, proprietario della squadra francese dal 2011, il braccio operativo in ambito sportivo del fondo sovrano Qatar Investment Authority istituito direttamente dall’emiro Hamad bin Khalifa al-Thani, il sovrano del Paese.

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Con la vicenda Neymar il calcio diventa ufficialmente un’arma di legittimazione sullo scacchiere internazionale per uno Stato sovrano, uno strumento di soft power geopolitico ovvero, nell’accezione del creatore di questo concetto Joseph Nye, la capacità di saper spingere gli attori internazionali a tenere condotte conformi ai desideri di chi lo possiede senza ricorrere alla forza militare.

Anche per chi non è un appassionato di relazioni internazionali e non è capace di identificare la capitale Doha sul planisfero, il Paris Saint Germain viene identificato come “la squadra del Qatar”.

L’acquisizione di una dei club sportivi più prestigiosa d’Europa è un’operazione che gli emiri del piccolo stato mediorentale hanno costruito assieme all’organizzazione dei Mondiali di calcio del 2022, l’evento che dovrà consacrare il Qatar a livello mondiale.

Un po’ quello che sono state le Olimpiadi di Pechino per sancire il ruolo della Cina sullo scacchiere internazionale. Il Qatar vive un momento molto delicato a causa dello scontro con l’Arabia Saudita e le altre petromonarchie del Golfo Persico che hanno imposto al piccolo emirato l’isolamento diplomatico ed economico.

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Una minaccia esistenziale per Doha che nell’ultimo decennio ha giocato con decisione, spirito di protagonismo e spregiudicatezza nei dossier più importanti della politica internazionale, dal conflitto in Siria, passando per la questione palestinese, fino alla travagliata fase post guerra in Libia.

L’accusa di fiancheggiare alcune formazioni dell’Islam radicale e i rapporti troppo stretti con la Fratellanza Musulmana e l’Iran sciita, nemico delle petromonarchie sunnite del Golfo, mossa dai rivali al Qatar getta una luce negativa anche sui cospicui investimenti fatti dall’emirato che in poco meno di un decennio è diventato un tassello fondamentale dall’economia globalizzata.

Tanto per fare qualche nome, il Qatar ha partecipazioni azionarie in Volkswagen, Lagardere, Airbus, nelle banche Hsbc e Credit Suisse. Per restare alla più stretta attualità, ha appena perfezionato un contratto con Fincantieri per acquistare sette navi da guerra al prezzo di cinque miliardi di euro.

Il Qatar è anche un protagonista fondamentale del mondo dell’energia essendo il primo produttore di Gnl (gas naturale liquefatto) che alimenta le economie di molti Paesi in Asia e in Europa.  

Il Qatar è un piccolo e ricchissimo (primo Paese al mondo per Pil pro capite) stato del Golfo Persico che deve fare i conti da vicinissimo con l’influenza di due pesi massimi della geopolitica come gli arci-nemici Arabia Saudita e Iran.

Allacciare strette relazioni economiche con i paesi occidentali, fornire capitali alle economie che ancora pagano lo scotto della grande crisi economica cominciata nel 2008 significa anche garantirsi una sorta di assicurazione sulla vita e sull’indipendenza politica in una delle regioni più conflittuali e strategiche del mondo come il Medioriente.

L’accusa di finanziare e fiancheggiare il terrorismo è, quindi, un duro colpo all’immagine dell’emirato che compromette la sua capacità di allacciare relazioni economiche con il lungo elenco di stati che fanno affari con Doha.

Per questo motivo il colpo Neymar può essere interpretato come una grande operazione di rebranding globale oltre che una dimostrazione di una perdurante forza economica, visto che si tratta di un affare complessivo da oltre 600 milioni di euro.

Il calcio è sempre stato uno degli strumenti privilegiati per diffondere l’immagine del Qatar. E se questa volta il Barcellona dovrà dire addio a uno dei suoi più importanti asset, non solo sul piano sportivo ma anche economico visto il valore del marchio Neymar a livello di sponsorizzazioni e capacità di penetrazione su media e social network, pochi anni fa furono i catalani a beneficiare della pioggia di petrodollari del Qatar.

Dal 2010 fino alla stagione sportiva in corso, Qatar Sport Investments ha griffato le fino ad allora immacolate maglie del Barcellona prima con il marchio “Qatar foundation” e poi con “Qatar Airwais”. Un’eccezionale mossa di marketing geopolitico che faceva campeggiare il nome di uno stato sconosciuto al grande pubblico sulle divise di una delle squadre più famose dell’intero panorama sportivo.

Il Qatar ha così affiancato il proprio nome al campionissimo Messi, a uno dei club con più supporter al mondo e con un’immagine vincente e “friendly” alimentata dai successi sportivi, dal sostegno all’Unicef (che prima del Qatar compariva sulle divise dei blaugrana), diventando a sua volta un brand riconoscibile.

Con l’approdo di Neymar alla squadra di Parigi controllata dal Qatar e con l’incarico di testimonial del grande evento sportivo ospitato da Doha, il Qatar vuole salvaguardare proprio l’organizzazione dei mondiali Fifa, i primi della storia in un paese musulmano, per cui gli emiri sono disposti a investire 500 milioni a settimana fino al 2022. Una valanga di denaro per sancire il ruolo del Qatar come grande potenza economica e politica e per continuare a essere uno dei protagonisti del nuovo ordine mondiale .