Ogni tanto si sente parlare di manager all’inglese. Una figura mitologica che il giornalismo italiano ha celebrato in seguito alle fortune di Alex Ferguson con il Manchester United, ma che in Inghilterra riscuote sempre meno successo.
Una chiara differenza nel ruolo ricoperto dal direttore sportivo in Inghilterra rispetto all’Italia è soprattutto in termini di comunicazione, ovvero – letteralmente -: chi parla con la stampa e rilascia le interviste. E questo nella percezione all’esterno e nella letteratura sul ruolo non è certo secondario.
In realtà sempre più club in Premier League si affidano ad un direttore sportivo estremamente simile al modello italiano.
Il fatto che non appaiano non vuol dire che non esistano.
Alex Ferguson al Manchester United rappresentava una figura onnicomprensiva: banalizzando gestiva il mercato del club e faceva la formazione. Ma Sir Alex era più che altro l’eccezione, nella sua longevità iniziata nel 1986 quando il calcio era un’altra cosa e la Premier League nemmeno esisteva.
A voler ben vedere Ferguson preferiva prendere sotto di sè allenatori veri e propri, come capitò con il portoghese Queiros (non certo una seconda scelta: veniva dalla nazionale portoghese!) a cui affidava il lavoro di campo, salvo poi decidere in prima persona le formazioni.
Il direttore sportivo in Inghilterra viene chiamato director of football (a volte indicato come “sporting director”). Sotto di lui vengono gestite l’area scouting e quelle tecnica, della prima squadra e dei settori giovanili (con differenze tra un club e l’altro). Dopo di che: di concerto con l’allenatore e il direttore finanziario il direttore sportivo opera sul mercato calciatori.
Al Chelsea Antonio Conte è affiancato da Michael Emenalo, in carica dal 2010. Proprio i suoi rapporti con Mourinho furono visti come uno dei temi che portarono all’esonero del portoghese lo scorso anno.
Il Liverpool ha recentemente assunto il suo primo direttore sportivo ovvero Michael Edwards, arrivato all’inizio di novembre del 2016.
Ma attenzione: l’assenza di questa figura non significa che l’allenatore sia in cima al club subito sotto il proprietario.
Vi è sempre stato un CFO (Chief Financial Officer) o un CEO (Chief executive officer) a cui fare riferimento, solo che nel calcio italiano (dove il presidente è storicamente uno, proprietario della larghissima maggioranza delle quote del club) la figura era legata più alle scelte tecniche da fare sul mercato, nel calcio inglese (dove solitamente il CEO deve riportare al club ovvero a diversi azionisti oltre a quello principale) era invece accostata alla gestione finanziaria del club.
Quanto poi questi CEO possano influire sulla scelta di un giocatore piuttosto che un altro è difficile dirlo, ma immaginarli del tutto neutri sarebbe decisamente ingenuo.
La figura del resto si è evoluta pure da noi. Ma quel che conta in questo ragionamento è che nessun club a memoria è stato gestito dal rapporto diretto presidente – allenatore, senza nessuna figura di mezzo. Pure lo United di Ferguson aveva un CFO, evidentemente del tutto marginale rispetto alle scelte di mercato che erano a totale appannaggio di sir Alex.
L’unica eccezione di un certo livello fu probabilmente Oleg Romantsev che ricopri contemporaneamente il ruolo di presidente, diesse e allenatore dello Spartak Mosca.
Lo stesso Arsenal, che è il club che più si avvicina al modello-Ferguson (che come detto era un’eccezione più che una regola), è stato recentemente accostato a ex giocatori come Emmanuel Petit e Robert Pires. Quel che si è capito, soprattutto a Manchester nel dopo Ferguson, è che il giorno in cui un plenipotenziario che gestisce panchina e direzione sportiva viene a mancare i problemi sono enormi.
E lo stesso Manchester United, a lungo accostato all’italiano Andrea Berta dell’Atletico Madrid (che sarebbe perfetto in un club inglese anche per il suo basso profilo in termini di apparizioni e dichiarazioni stampa), sta ragionando in questo senso dopo lo scotto degli anni dopo Sir Alex.
L’obiettivo è quello di inserire un livello intermedio tra Ed Woodward (amministratore delegato che di fatto oggi fa il mercato: a lui ad esempio sono state attribuite le decisioni chiave sull’esborso per Pogba) e Josè Mourinho.
Dall’altra parte della città, al Manchester City, sin dal suo insediamento l’amministratore delegato Ferran Soriano ha voluto al suo fianco Txiki Begiristain come direttore sportivo in un ruolo che precedentemente era ricoperto (fino a ottobre 2012) da Brian Marwood, ovvero il regista delle sontuose campagne acquisti che portarono al titolo con Roberto Mancini in panchina.
L’Everton nello stesso ruolo ha ingaggiato a luglio Steve Walsh proveniente dal Leicester.
L’interpretazione che viene data di questo ruolo in Inghilterra è chiara: un uomo di campo, di comprovata esperienza, non digiuno di competenze in tema di gestione economica, con contatti nel mondo calcistico e capacità di scouting, che faccia da tramite con la squadra attraverso il manager e il direttore finanziario (o amministratore delegato, più raramente il presidente stesso).
La curiosità: sono sempre più i manager a chiedere che ci sia un direttore sportivo in società. Proprio per focalizzarsi meglio sulla squadra, come è successo a Jurgen Klopp al Liverpool.
Il Tottenham, che negli anni scorsi si affidò all’italiano Franco Baldini e in precedenza a Damien Comolli, si è poi affidato a Rebecca Caplehorn, arrivata a marzo 2015 dopo 5 anni al Qpr.
Scendendo nella graduatoria attuale della Premier: al Southampton c’è Les Reed, al Wba c’è Richard Garlick, al Watford dei Pozzo invece Mazzarri risponde a Luke Dowling (dopo che il club in passato era stato affidato all’italiano Gianluca Nani, ex Brescia e poi anche al West Ham, dimessosi in seguito all’addio di Beppe Sannino).
Quel che cambia, e che probabilmente ha generato la bufala del manager all’inglese, è che in Inghilterra i direttori sportivi parlano molto meno in via ufficiale, i loro rapporti con la stampa sono (per i canali tradizionali) praticamente nulli: non vanno in tv prima e dopo le partite, sono visti come puri gestori. Le società preferiscono puntualizzare, quando vogliono, affidandosi ai comunicati stampa.
Pesa forse su questa inquadratura del ruolo la storia del calcio inglese dove il calciomercato è molto meno teatrale e mediatico che in Italia (noi del resto siamo l’unico paese in cui il calciomercato è stato anche un posto fisico).
Semplificando, se prima l’Inghilterra le società erano gestite dalla catena priorietà – direttore finanziario o amministratore delegato – manager (allenatore) ora è sempre più comune (anche per la accresciuta complessità delle società) che tra direttore finanziario e manager si ponga un altro livello, quello appunto del direttore sportivo.
In Italia, dove si è pensato a lungo – e a sproposito – che il modello Ferguson fosse quello imperante a volte si sente dire – erroneamente – che in Inghilterra gli allenatori durano molto di più che da noi.
In realtà le ultime rilevazioni della Football League avevano mostrato (dati a fine stagione 2015) come la media di tenuta di un tecnico nei club inglesi sia intorno a 1 anno e 3 mesi, con una precarietà molto marcata soprattutto in Championship (la seconda divisione) dove nel 2014-2015 ci furono ben 20 cambi (4 solo al Watford) per una media di permanenza intorno ai 9 mesi.
Un dato che si riflette a tutti i livelli del professionismo inglese. Perchè se come detto il 2014-2015 fu particolarmente infausto per gli allenatori con ben 47 cambi di panchina, il record risale al 2001-2002 con 52 cambi (ricordando che dalla seconda divisione alla quarta le squadre inglesi sono 72 a cui vanno aggiunte quelle di Premier), a dimostrazione di come da anni anche in Inghilterra le società mangiallenatori non siano certo delle eccezioni.