La notizia della nuova formula della Champions League che dal 2018 ammetterà 4 squadre delle prime 4 federazioni del ranking europeo direttamente ai gironi si presta ad alcune considerazioni, in attesa che entro la fine dell’anno si conoscano nel dettaglio tutti i passaggi e le tecnicalità legate al nuovo torneo.
Per la Serie A si tratta di un grande risultato politico: Andrea Agnelli per la Juventus, Umberto Gandini per il Milan e Erick Thohir per l’Inter hanno fatto un pressing vincente sull’UEFA: magari la politica italiana fosse così efficace in Europa!
Parlare di “meritocrazia” in senso assoluto è sempre pretestuoso, perchè premiare il merito è sempre un concetto relativo (esattamente come stabilire se un paese è più o meno “libero” o “democratico”). La meritocrazia al massimo la si può misurare alla luce di fattori e variabili che determinano un sistema.
Nella fattispecie il nuovo sistema salva il merito perchè non introduce nessun criterio che premi esclusivamente altri fattori.
Spagna, Germania, Inghilterra e Italia avranno 4 squadre nei gironi. Cambia che le prime tre avranno 4 squadre esattamente come successo negli ultimi anni, ma senza playoff, mentre l’Italia di fatto ai gironi avrà un 40% in più di rappresentative sicure: 12 in 3 anni anzichè 12 in 5 anni come successo recentemente.
Un ritorno al fassato affascinante, che certo non basterà – da solo – a riportarci ai fasti di un decennio fa, quando dominavamo e mandavamo Juventus e Milan in finale (come ricorda la foto di copertina).
Ha sicuramente pesato sulla scelta il valore del mercato televisivo italiano, secondo solo a quello inglese per investimenti destinati alla Champions League.
Va ricordato che dei 700 milioni in 3 anni di Mediaset poco meno della metà è andato direttamente ai club italiani (il famoso market pool) mentre il resto ha contribuito a formare il grosso del ricco montepremi.
Al netto dell’instabilità del mercato italiano delle pay tv pare del tutto giusto che gli investimenti delle tv stesse finiscano per offrire contenuti che attirino il più possibile quel pubblico che con i propri abbonamenti (e i propri consumi che finanziano indirettamente le sponsorizzazioni) finanzia il sistema.
Dall’altra parte è anche giusto evidenziare che se nel 2012 l’Italia si trovava a 4 punti di distanza dalla quinta del ranking e ad una distanza siderale di 15 punti dall’Inghilterra, oggi le squadre di Serie A stanno a -2 e rotti dalla Premier League e a +15,5 dalla quinta che non è più il Portogallo ma (grazie in gran parte al PSG) la Francia.
Insomma, l’Italia non ha scavalcato (potrebbe farlo quest’anno, vedremo) l’Inghilterra ed è ancora quarta, ma ha dimostrato nel quadriennio di essere al più vicina alle migliori che alle inseguitrici (e in questo senso contano i risultati di tutti, soprattutto in Europa League).
E questo forse può aiutare a contestualizzare nel giusto modo il valore del nostro campionato, che non è più egemone ma è sempre nel novero dei migliori d’Europa.
Tra le novità ci sarà il peso della storia. Per calcolare il coefficiente verranno considerati anche i successi nella storia della competizione (assegnati punti per i precedenti titoli europei con un sistema ponderato per la UEFA Champions League e la UEFA Europa League).
In attesa di sapere quanto effettivamente sarà incisivo questo fattore bisogna fare due considerazioni.
La prima è che escludere i grandi club nuoce non solo al club ma anche alla competizione: dietro ai grandi club stanno passioni e grandi bacini d’interesse, ben più radicato dell’estemporanea simpatia che suscitano le cenerentole. Se si vuole un gioco che coinvolga la gente il circolo virtuoso non può permettersi di escludere i grandi nomi.
Nonostante questo alle coppe Europee si accederà comunque facendo nell’anno precedente risultati sul campo (e partecipando ai preliminari). E questo è un “più” alla voce “merito sportivo”, prioritario anche qui rispetto ad altri fattori.
Su questo aspetto, nel basket ad esempio, si è arrivati a sanguinose rotture. Il calcio ha invece trovato un compromesso alto che va sì nell’interesse degli sponsor ma anche nell’interesse della gente, perchè quando si fa la conta dell’affluenza agli stadi o degli ascolti tv di una partita si sta calcolando non solo il ritorno economico, ma anche il peso in termini di passione e coinvolgimento del gioco più bello del mondo.
Tutto ciò è stato fatto senza congestionare ulteriormente i calendari (non cambiano i format) e mantenendo il caposaldo dei campionati nazionali nel week end nonostante gli interessi strettamente economici suggerirebbero di mettere partite ad orari più favorevoli a mercati come quello asiatico.
La seconda è una valutazione da fare sul sistema. Il calcio vive oggi gli stessi problemi che l’Europa vive sul piano politico. Vi è una integrazione economica di fatto che non corrisponde a quella socio culturale.
L’integrazione, tuttavia, non è fatta in modo omogeneo: un ristretto novero di club ha le carte in regola per continuare a dominare la scena. Ma questo è esattamente quello che a livello nazionale è sempre successo: la verticizzazione del calcio non è nata in Champions League, è sempre stata realtà nei campionati nazionali, l’internazionalizzazione del gioco (post Bosman) l’ha solo esportata e acuita anche a livello europeo.
Davanti a questa realtà si può restare nostalgici dei bei tempi andati, con visione romantica e senza la consapevolezza di quel che anche 40 anni fa non funzionava, o si può invece decidere di governare l’attualità, fissando linee di principio e tracciando i perimetri dell’inclusione e della competizione.
L’Uefa e l’Eca in questo hanno innestato un processo che senza spaccature sta provando a delineare il calcio del futuro (e la creazione di una nuova società partecipata da entrambe è un forte segnale che va ben oltre le semplici volontà): non privo di difetti, ma nemmeno estraneo a dinamiche virtuose che favoriranno lo spettacolo e il divertimento dei più.