Ventitre anni dopo Usa 1994, Mondiale che avrebbe dovuto lanciare definitivamente il prodotto “soccer” negli Stati Uniti, oltreoceano c’è un movimento che si sta rivelando più in salute non solo di quello americano, ma anche di quello a sud del continente.
Dimenticate MLS, il vero fenomeno mondiale è la Primera Division messicana: un campionato che, a partire dalla media dell’affluenza allo stadio, è finora capace, con i suoi 26.000 tifosi, di superare i campionati d’Argentina (20.000) e Brasile (16.000).
Se da un lato, in Messico, il fenomeno fùtbol non è nato oggi, dall’altro deve essere riconosciuto come gli investimenti degli ultimi anni siano riusciti a trasformare la Liga MX nel campionato più seguito fuori dall’Europa, il quarto nel mondo dopo le “big four” del vecchio continente e perfino davanti a Ligue 1 ed MLS.
E proprio la Major League, che da almeno un ventennio vive di continui alti e bassi, tra progetti di definitivo rilancio e ritorni di furore, la Primera Division messicana non resta a guardare, strizzando l’occhio a figli e nipoti d’immigrati negli Stati Uniti che, mal digerito il salary cap, hanno deciso di varcare la frontiera di Tijuana per realizzarsi professionalmente nella terra dei loro avi.
Se la rincorsa all’exploit è iniziata da un decennio, è però dal 2012 che a Città del Messico hanno deciso d’iniziare a fare sul serio. Il primo passo è stata la riforma dei campionati.
Prendendo spunti dalle vicine leghe sudamericane, la creazione di un campionato Apertura (da luglio a dicembre) e un Clausura (da gennaio a maggio), con successiva “liguilla”, e cioè un play-off tra le prime otto in classifica, non solo ha reso quella della Primera Division una stagione che si disputa tutto l’anno, ma anche una lega a 18 squadre avvincente, seguita e dal tasso tecnico elevato.
A recitare la loro parte non sono però solo i giocatori in campo, ma anche il pubblico con gli stadi. Si parlava della media di 26.000 tifosi negli impianti; grazie a biglietti economici dal costo medio di circa due dollari, i messicani hanno riscoperto la gioia di frequentare lo stadio, portando la media di riempimento all’80%.
E pochi anni fa, in occasione della finalissima tra i due club più titolati del Paese, il Club America e il Chivas, sono state oltre 80.000 le presenze allo stadio Azteca, l’impianto di Città del Messico nel quale si è disputata “el partido del siglo” Italia-Germania del Mondiale del 1970.
Una finalissima, organizzata nella notte di Natale: un esperimento già proposto in passato e che, in uno dei Paesi più cattolici del Mondo, ha raccolto entusiasmo, nessuna critica e un modello innovatore da riproporre anche negli anni a venire.
La vera revoluciòn è stata però quella relativa ai diritti tv. Dopo gli anni del monopolio di Tv Azteca e Televisa, fino a qual momento uniche detentrici dei diritti, l’ingresso di Espn e Fox Sports, Sky – e BT pare stia preparando la sua discesa in campo – ha invece mutato l’approccio alla compravendita, portando una ventata di liberalizzazione del mercato.
Il merito di questo cambio di rotta è però stato tutto di Carlos Slim: patrimonio stimato da Forbes intorno ai 50 miliardi di dollari, uomo più ricco del mondo dal 2010 al 2013, magnate delle telecomunicazioni di tutta l’America Latina per la quale, con le sue Telmex, Telcel e America Movil, controlla quasi il 75% dell’intero traffico continentale.
Grazie alla sua mediazione, ai club è stato permesso di interrompere accordi ventennali e di accordarsi con un broadcaster a scelta, oppure, come nel caso del Chivas di Guadalajara, di creare una tv tematica ad abbonamento con la trasmissione esclusiva delle partite del club.
Il secondo passo la Liga MX l’ha fatto sui social, sui quali ha organizzato una enorme campagna di fan engagement per avvicinare soprattutto i più giovani, e poi ha ceduto a Facebook un pacchetto per la trasmissione di una cinquantina di match negli Stati Uniti.
Paese che, non è necessario sottolinearlo, resta il mercato esportatore di riferimento per il Messico, e dove la Primera Division gode, non solo tra gli immigrati, di un seguito maggiore di MLS e Premier League.
Al di là del legame famigliare, il prodotto resta comunque di qualità, a partire dai nomi. Qui, da quasi tre anni si è riparato il francese Pierre Gignac, che chiusa la sua esperienza in Ligue 1, si sta togliendo soddisfazioni importanti con il Tigres.
Alla giornata numero undici del Torneo Apertura, al comando della classifica marcatori c’è la punta del Leon, Mauro Boselli: argentino ben conosciuto dalle nostre parti per quel derby della Lanterna decisa al 96° nella sua breve esperienza con la maglia del Genoa.
Altre stelle portano i nomi di Enner Valencia, in Inghilterra con West Ham ed Everton tra il 2014 e il 2017 e oggi in forza al Tigres, o del trequartista del Monterrey Rogelio Funes Mori, ex talentino cresciuto nel River Plate e passato anche lui dall’Everton.
Ovviamente un prodotto in salute, dal valore dei diritti tv da 120 milioni di dollari, con un fatturato da oltre 500 milioni che inserisce il campionato nella top 20 delle leghe sportive più ricche del pianeta, nella top 10 di quelle solo calcistiche, il movimento non è comunque esente da nei.
Se il sistema Apertura e Clausura ha di fatto rilanciato il movimento interno, la sola retrocessione, che avviene ogni anno tre anni sul modello argentino della media punti più bassa dell’ultimo triennio, lascia meno possibilità ai club della Primera A (la seconda divisione messicana) di potersi sedere al tavolo delle grandi, e non solo sportivamente.
Alle big della Liga MX viene infatti rinfacciato come questa si stia avvicinando sempre più a una lega esclusiva su modello statunitense, e temono che a breve possa arrivare un ipotetico declassamento con lo sbarramento alla neopromossa. Un altro provvedimento che sta facendo borbottare, e non solo in patria, resta la regola del “ocho/dieciocho”.
Su diciotto giocatori convocati per i match in campionato, otto devono essere nati in Messico. Si tratta ovviamente di una limitazione sfavorevole sia per gli allenatori, per certi versi con le mani legati nella gestione della rosa, sia per stranieri, iniziando dai tanti messicani nati negli Stati Uniti ma che hanno deciso di varcare il confine da calciatori.
Se questo vincolo gioverà alla Nazionale, avremo tempo per capirlo. Di certo la “Tricolor” non sta certo soffrendo di salute. Al tabellone principale di Russia 2018, la selezione guidata dal colombiano Juan Carlos Osorio – pluricampione in patria con Once Caldas e Atletico Nacional, con il quale ha vinto anche una Copa Sudamericana – è stata la prima formazione a qualificarsi nell’area Conacaf.
Dopo aver vinto il girone preliminare con Honduras, Canada ed El Salvador grazie a cinque successi e un pareggio in sei gare, il miglior attacco e un solo gol subito, nella seconda fase la “tri” ha ancora una volta sbaragliato la concorrenza chiudendo davanti a tutti con sei successi, tre pareggi e la sola sconfitta arrivata però contro l’Honduras a qualificazione già ottenuta.
A sorpresa non è stato quello degli uomini di Osorio l’attacco più prolifico – un gol in meno degli Usa clamorosamente rimasti fuori dalla competizione -, ma l’organico resta comunque di valore e soprattutto ben assortito.
Archiviata la “generaciòn de oro” dei Blanco, Borghetti, Javier Hernandez e Rafa Marquez, i nomi nuovi, oltre ai ben conosciuti “Chicharito” Hernandez e Carlos Vela, sono quelli di Miguel Layun, difensore classe 1988 del Porto, visto anche da queste parti, ma senza fortuna, con la maglia dell’Atalanta; di Raùl Jimenez e di Hervin Lozano: il primo in forza al Benfica dopo la breve parentesi all’Atletico Madrid, il secondo sbarcato pochi mesi fa in Eredivise al Psv, dopo il tanto di buono fatto al Pachuca.
Rispetto al passato, l’impressione è che i prospetti locali non guardino più a Europa e a Sud America come carta da giocare al più presto, ma preferiscano prima crearsi un curriculum sul suolo amico. Il motivo è anche e soprattutto economico, visto che lo stipendio medio per un calciatore in Messico è lievitato fino a 350.000 dollari stagione,
Il futuro si gioca più fuori dal campo che dentro il rettangolo di gioco. L’obiettivo è chiaramente quello di mantenere sul binario un prodotto ben allestito e che sta riscuotendo successo in patria e fuori, l’altro è invece continuare a confermare l’economia locale come la decima mondiale.
Le ultime calamità naturali e il braccio di ferro con Donald Trump stanno mettendo a dura prova il Peso, ma la moneta messicana sembra in grado di reggere l’urto. Sul piano puramente calcistico, però, il cuore pulsa forte.